Il ruolo del magistrato nella mediazione in Italia

L’intervento del Presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce all’inaugurazione del progetto europeo Judges in ADR

Giorgio Santacroce, Presidente della Corte di Appello di Roma, ricorda che durante gli incontri con i Presidenti e i Procuratori Generali delle Corti di Appello delle capitali dei 27 Paesi dell’Unione Europea, quando si trattava della mediazione/conciliazione si sentiva sempre un pò spiazzato, in quanto tale istituto aveva già trovato “casa” nell’ordinamento giuridico degli altri Paesi europei come metodo di composizione delle controversie alternativo al processo di cognizione innanzi al giudice statale.

E’ stata quindi con soddisfazione e speranza che ha accolto l’ingresso della medizione nel nostro sistema.

Santacroce riconosce che per l’Italia si tratta di una novità di portata rivoluzionaria nell’amministrazione della giustizia civile, avendo il D.Lgs. n. 28 del 2010 esteso ad una vasta gamma di controversie l’ambito di operatività della giustizia alternativa che era oggetto in precedenza di discipline settoriali e lacunose.

Dal punto di vista pratico “fondandosi su base volontaria e sulla fiducia riposta dalle parti, la mediazione è un istituto estraneo al giudizio di cassazione, mentre è utilizzabile nel giudizio davanti al giudice di pace, sempre che questo non sia adito esclusivamente per la funzione conciliativa non contenziosa prevista dall’art. 322 c.pc., considerata la sostanziale identità di quest’ultima attività con quella del mediatore.

Il regime del doppio binario

Introducendo la mediazione, il legislatore ha istituito una sorta di “doppio binario”, distinguendo le controversie civili per le quali il procedimento di mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale riguardo a un gruppo predeterminato di controversie e la cui esperibilità è dunque obbligatoria, e quelle per le quali la scelta di ricorrere a questa procedura è rimessa invece alla discrezionalità delle parti.

Quanto al tipo di attività che il giudice è chiamato a esercitare sull’iter del procedimento di mediazione, bisogna distinguere la mediazione ante causam da quella che può essere svolta nel corso del giudizio. La prima, obbligatoria, è esperibile prima dell’inizio del giudizio di primo grado; la seconda, facoltativa, può avvenire nel corso del giudizio a iniziativa del giudice. In posizione più defilata è prevista una mediazione per così dire concordata, che ricorre quando la clausola di mediazione o di conciliazione sia contenuta in un contratto o nello statuto o nell’atto costitutivo di un ente, dove pure è previsto un intervento del giudice (art. 5 comma 5).

Nei casi di mediazione ante causam, il giudice è tenuto a controllare innanzitutto se sia stato rispettato il dovere di informativa imposto al difensore all’atto del conferimento dell’incarico da parte del suo assistito (art. 4 comma 3 d.lgs. n. 28/2010, entrato in vigore per questa parte fin dal 20 marzo 2010). Il controllo consiste nel verificare se “il documento che contiene l’informazione è sottoscritto dall’assistito” ed è stato allegato “all’atto introduttivo del giudizio”, secondo il modello di informativa proposto in via generale dall’Ufficio Studi delConsiglio Nazionale Forense il 15 marzo 2010. Si tratta di un modello unico, distinto dall’atto di conferimento della procura alle liti, relativo sia alle controversie per le quali il ricorso alla mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale, sia alle controversie in cui l’utilizzo della procedura è meramente facoltativo.

In caso di mancata allegazione di questo documento il giudice procede d’ufficio, informando direttamente la parte dell’obbligo o della facoltà di chiedere la mediazione (art. 4 comma 3, parte finale). L’importanza dell’adempimento dell’informativa – che ha uno scopo essenzialmente promozionale e pubblicitario del “prodotto conciliazione” (sicuramente più capillare e mirato di quello imposto al Ministero della Giustizia dall’art. 21) – è tale che, se la parte non è presente, il giudice dovrà invitare il difensore a produrre l’informativa ovvero disporrà la comparizione delle parti davanti a sé ai sensi dell’art. 117 c.p.c.

E’ appena il caso di osservare che il controllo va fatto tutte le volte che la vertenza riguarda un contenzioso in cui il procedimento di mediazione può essere concretamente e potenzialmente utilizzato (art. 5 comma 1) e non quando l’informativa non è necessaria perché si verte in materia di diritti indisponibili (arg. a contrario, ex art. 2), ovvero quando l’istituto non trova applicazione, come nei casi elencati dall’art. 5 comma 4 (procedimenti per ingiunzione, procedimenti possessori, procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata, procedimenti in camera di consiglio, casi di azione civile esercitata nel processo penale). Il controllo va eseguito, inoltre, dal giudice all’inizio del processo di primo grado e non ogni volta che l’assistito rilasci un’altra procura nel corso del processo, nei vari gradi e fasi del giudizio (per mutamento del difensore, per limitazione della procura a una specifica attività, ecc.).

La seconda indagine che il giudice deve svolgere è prevista dall’art. 5 comma 1 e riguarda la verifica del rispetto dell’obbligatorietà della mediazione in tutti quei casi in cui l’esperimento della mediazione è previsto come condizione di procedibilità della domanda giudiziale (controversie in materia di condominio, diritti reali, divisione, ecc.). L’improcedibilità, oltre a dover essere eccepita dal convenuto a pena di decadenza, va rilevata d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza. Nella stessa norma, poi, sono previsti e regolati gli altri interventi che il giudice è tenuto a fare ove accerti che la mediazione non è stata esperita, ovvero quando è iniziata ma non è stata conclusa.

La mediazione finalizzata alla conciliazione può svolgersi anche nel corso del giudizio, nelle ipotesi in cui il relativo procedimento debba essere obbligatoriamente espletato in via preliminare (c.d. mediazione delegata). Ai sensi dell’art. 5 comma 2, il giudice, anche in sede di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può invitare queste ultime – prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni, ovvero, quanto questa udienza non è prevista, prima della discussione della causa – a procedere alla mediazione.

Se le parti ignorano l’invito il processo prosegue senza che si producano conseguenze ulteriori rispetto a quella sancita dall’art. 116 comma 2 c.p.c. Se, invece, l’invito viene accolto, le parti sono libere di individuare la sede e l’organismo presso il quale avviare il procedimento di mediazione, come pure di negoziare autonomamente, al di fuori dei meccanismi regolati dal decreto legislativo del 2010. L’unico aspetto su cui interviene l’organizzazione giudiziaria sono i tempi, perché il giudice è tenuto ad assegnare il termine di 15 giorni, entro il quale va instaurato il procedimento di mediazione. Calcolando, inoltre, che l’iter della mediazione non può superare i quattro mesi (art. 6), il giudice deve fissare anche l’udienza in prosecuzione in una data successiva alla scadenza di tale termine, a conferma che l’arco di tempo che va dalla fissazione del termine iniziale alla scadenza di quello finale deve essere considerato un mero differimento e non un caso di sospensione del processo. Soluzione, questa, certamente da approvare, perché risparmia alle parti gli incombenti relativi a un’eventuale riassunzione.

Nella mediazione delegata, dunque, la valutazione relativa all’opportunità di seguire (o ripetere) la via conciliativa spetta in prima battuta al giudice, che invita a procedere alla mediazione, e in seconda battuta alle parti, che aderiscono all’invito: l’uno e le altre ritengono, rispettivamente, preferibile e conveniente che sia il mediatore – per le qualità e l’idoneità professionale che si presume e si spera che possegga – ad attivarsi per il raggiungimento di un accordo amichevole. Nella mediazione delegata il giudice si limita a prospettare l’opportunità di una composizione amichevole e negoziata da raggiungersi in via stragiudiziale, senza vincoli sull’an e sul quomodo. E’ bene precisare che la mediazione delegata non costituisce una vera e propria novità. Indipendentemente da quanto previsto dalla Direttiva europea 2008/52/CE (art. 5), già in virtù degli artt. 200 e 696-bis c.p.c. il giudice può “delegare” un terzo (il consulente tecnico) a tentare la conciliazione.

La funzione propulsiva del giudice di appello in questo tipo di mediazione è stata di recente confermata dallo schema di decreto-legge recante “disposizioni urgenti in materia di composizione delle crisi da sovraindebitamento e disciplina del processo civile”, che, all’art. 13, attribuisce al Presidente della Corte di Appello il compito di adottare “nell’ambito dell’attività di pianificazione prevista dall’art. 37 comma 1 del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, ogni iniziativa necessaria a favorire l’espletamento della mediazione su invito del giudice… e ne riferisce, con frequenza annuale, al Consiglio Superiore della Magistratura e al Ministero della Giustizia”.

Accanto alla mediazione finalizzata alla conciliazione prima e durante il processo introdotta dal d.lgs. n. 28/2010 continua ad aver vigore la mediazione c.d. endoprocessuale prevista dal codice di rito, che attribuisce al giudice la facoltà, nel giudizio di primo grado (art. 185 c.p.c.), e l’obbligo, nel giudizio di secondo grado (art. 350 c.p.c.), di esperire il tentativo di conciliazione. In questi casi, è evidente, la funzione di mediatore è svolta direttamente dal giudice, sulla base di una valutazione prettamente discrezionale. Finora la mediazione endoprocessuale del giudice non ha mai sortito effetti positivi, anche se è indubbio che nel corso del giudizio, stante il carattere disponibile dei diritti in contesa e lo stadio in cui si trova la causa, l’atteggiamento delle parti possa lasciar intuire qualche margine di successo. Il fatto è che un conflitto radicato in sede giudiziaria difficilmente si può risolvere mediante un procedimento di mediazione, perché le parti, a causa del progressivo deterioramento dei loro rapporti, non sono emotivamente disposte ad accettare la mediazione di un terzo estraneo, che non conosce la causa e deve studiarsi gli atti ab initio, fidandosi di più dell’esperienza e della competenza del giudice.

La novità della mediazione delegata però sta proprio in questo potere persuasivo del giudice, il quale, senza scoprire troppo le carte e senza quindi anticipare soluzioni, può svolgere, con l’ausilio degli avvocati, un’efficace opera di valorizzazione del nuovo strumento della mediazione, illustrando i vantaggi che comporta: dalla flessibilità che permette di ricercare una pluralità di soluzioni conciliative, anche discostandosi dall’oggetto della lite, alla riservatezza in ordine alle dichiarazioni e alle informazioni comunque acquisite (art. 9), ivi compresa la possibilità di sentire le parti separatamente. Esplicita sul punto è la relazione illustrativa secondo cui “il mediatore non è, come il giudice, vincolato strettamente al principio della domanda e può trovare soluzioni della controversia che guardano al complessivo rapporto tra le parti”, aggiungendo che “il mediatore non si limita a regolare questioni passate, guardando piuttosto a una ridefinizione della relazione intersoggettiva in prospettiva futura”. Per non
parlare del risparmio di tempo e di denaro che la mediazione comporta rispetto al giudizio di cognizione ordinario e dei costi e delle agevolazioni fiscali che prevede (art. 17). Non è un caso, quindi, che l’art. 7 stabilisca che i periodi di tempo occorrenti per esperire la mediazione non si computano ai fini dell’indennizzo previsto dalla legge Pinto per l’eccessiva durata del processo.

Il ruolo del giudice nella mediazione non si esaurisce nella disciplina fin qui esaminata, perché il legislatore, deciso ad incrementare in ogni modo il ricorso alla mediazione, persevera nel sanzionare economicamente la parte che voglia comunque essere tutelata in giudizio, in quanto insoddisfatta delle possibilità di vantaggio conseguibili in sede di mediazione. A parte l’omologazione del verbale da parte del presidente del tribunale del circondario dove ha sede l’organismo di conciliazione, prescritta dal primo comma dell’art. 12, che si concreta nel mero accertamento della sua regolarità formale, particolare rilievo assume la disciplina dell’incidenza del procedimento di mediazione sulle spese processuali del giudizio intrapreso a seguito del mancato raggiungimento dell’accordo conciliativo: che fa scattare sanzioni pesanti e in automatico quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa. L’art. 13 impone, infatti, al giudice l’obbligo, nella liquidazione delle spese di giustizia, di tener conto dell’esito infausto della mediazione, condannando la parte vittoriosa a pagare le spese processuali sostenute dal soccombente nel periodo successivo alla proposta, oltre ad altre spese specificamente dettagliate. Disposizione che continua a destare non poche perplessità, specie se il procedimento è stato incentrato su questioni più ampie rispetto a quelle oggetto di giudizio, attesa la natura facilitativa della mediazione, tanto più che il giudice potrebbe non avere piena conoscenza degli elementi e delle ragioni che hanno condotto alla proposta di mediazione rifiutata, come maturate nel corso delle sessioni di incontro separate.

Non senza ragione, quindi, il CSM, nel parere espresso sul disegno di legge delega, proprio con riferimento alle spese del giudizio, aveva suggerito di consentire “al giudice di valutare, al termine della causa, la ragionevolezza e la giustificabilità del rifiuto da parte del vincitore della causa di procedere a un tentativo di risoluzione alternativa, con le necessarie conseguenze in termini di spese del giudizio”. Aggiungendo: “non si dovrà trattare di una conseguenza automatica ma di una conseguenza caso per caso, basata sul comportamento delle parti nella causa e sulla obiettiva incertezza del caso”.

Fonte: www.mondoadr.it

Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.